Imballaggi rifiuti: quali sono le tipologie e come si gestiscono

Quali sono gli imballaggi considerati rifiuti? Quando si classificano come tali? Come funziona il CONAI e chi deve versare il contributo ambientale? Una guida completa per le aziende che devono gestire correttamente i rifiuti da imballaggio secondo la normativa italiana

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Tipologie di imballaggi rifiuti e come gestirle

Gli imballaggi sono indispensabili per proteggere, conservare e trasportare merci, ma quando esauriscono la loro funzione diventano rifiuti che le aziende devono gestire secondo precise normative ambientali.

In questo approfondimento rivolto alle imprese, faremo chiarezza su tutte le questioni principali relative agli imballaggi rifiuti. Vedremo quali sono le tipologie di imballaggi (primari, secondari e terziari) e i rispettivi codici CER per classificarli, quando un imballaggio diventa un rifiuto a tutti gli effetti e in quali casi può essere riutilizzato, se e quando tali rifiuti possono essere considerati rifiuti urbani oppure sono speciali, e infine che cos’è il CONAI, come funziona il sistema consortile degli imballaggi e chi deve pagare il contributo ambientale CONAI.

Che cos’è un imballaggio secondo la normativa ambientale?

Per capire come gestire i rifiuti di imballaggio, è anzitutto importante definire che cos’è un imballaggio. La normativa ambientale italiana nel D.Lgs. 152/2006, art. 218 (Testo Unico Ambientale – TUA) recepisce la definizione europea di imballaggio come

“il prodotto, composto di materiali di qualsiasi natura, adibito a contenere determinate merci (dalle materie prime ai prodotti finiti), a proteggerle, a consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal produttore al consumatore o all’utilizzatore, nonché ad assicurare la loro presentazione.”

In altre parole, è considerato imballaggio qualsiasi confezione o involucro progettato per contenere e tutelare un prodotto durante la distribuzione, la vendita e l’uso. Rientrano quindi tra gli imballaggi sia le confezioni usa-e-getta che quelle progettate per essere riutilizzate più volte, a condizione che svolgano la funzione di contenere/proteggere la merce.

Occorre distinguere gli imballaggi dai prodotti veri e propri: un oggetto che fa parte integrante del prodotto e viene usato, consumato o smaltito insieme ad esso non è considerato un imballaggio. Ad esempio, il contenitore fisso di un macchinario o la scatola di un attrezzo che rimane permanentemente parte dell’attrezzo stesso non sono imballaggi.

Inoltre, elementi accessori direttamente attaccati al prodotto (come etichette o tappi) sono considerati parte dell’imballaggio se svolgono funzione di imballaggio e vengono rimossi e scartati assieme ad esso. L’Allegato E alla Parte IV del Testo Unico Ambiente fornisce criteri dettagliati per aiutare le aziende a riconoscere cosa è imballaggio e cosa no, evitando dubbi nei casi limite.

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Quali sono le tipologie di imballaggio rifiuti?

Gli imballaggi si distinguono in tre tipologie principali, definite dalla normativa, in base al loro utilizzo lungo la filiera commerciale. Ognuna di queste categorie, imballaggio primario, secondario e terziario, corrisponde anche a specifiche voci nell’elenco dei codici CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti) quando diventano rifiuti. Ecco quali sono le tipologie di imballaggio e le loro caratteristiche:

  • Imballaggio primario  o imballaggio per la vendita: si definisce imballaggio primario il rivestimento che confeziona il singolo prodotto pronto al consumo. Ad esempio, in una lattina contenente aranciata, il barattolo di alluminio costituisce l’imballaggio primario. L’imballaggio consente di conservare nel tempo e trasportare beni altrimenti deperibili.
  • Imballaggio secondario: è l’imballaggio che costituisce il raggruppamento di un certo numero di unità di vendita. Di solito lo si trova nel punto vendita e può essere rimosso dal prodotto senza alterarne le caratteristiche. L’imballaggio secondario è un imballaggio concepito in modo da costituire, nel punto di vendita, il raggruppamento di un certo numero di unità di vendita, indipendentemente dal fatto che sia venduto come tale all’utente finale o al consumatore, o che serva soltanto a facilitare il rifornimento degli scaffali nel punto di vendita. Esso può essere rimosso dal prodotto senza alterarne le caratteristiche (art. 35, lett. c), d.lgs. n. 22/97).
  • Imballaggio terziario: è un imballaggio concepito in modo da facilitare la manipolazione ed il trasporto di un certo numero di unità di vendita oppure di imballaggi multipli per evitare la loro manipolazione ed i danni connessi al trasporto, esclusi i container per i trasporti stradali, ferroviari, marittimi e aerei (art. 35, lettera d), d.lgs. n. 22/97).

Consulta l’elenco completo dei Codici CER/EER

Quali sono i codici CER dei rifiuti da imballaggio?

I rifiuti da imballaggio sono quelli della famiglia CER 15 – Rifiuti did imballaggio, assorbenti, stracci, materiali filtranti e indumenti protettivi (non specificati altrimenti).

Elenchiamo di seguito i rifiuti da imballaggio più comuni, con collegamento all’approfondimento relativo di Rifiutoo per i principali:

  • 15.01.01 imballaggi in carta e cartone
  • 15.01.02 imballaggi in plastica
  • 15.01.03 imballaggi in legno
  • 15.01.04 imballaggi metallici
  • 15.01.05 imballaggi in materiali compositi
  • 15.01.06 imballaggi in materiali misti
  • 15.01.07 imballaggi in vetro
  • 15.01.09 imballaggi in materia tessile
  • 15.01.10 imballaggi contenenti residui di sostanze pericolose o contaminati da tali sostanze (pericoloso)
  • 15.01.11 imballaggi metallici contenenti matrici solide porose pericolose (ad esempio amianto), compresi i contenitori a pressione vuoti (pericoloso)
  • 15.02.02 assorbenti, materiali filtranti (inclusi filtri dell’olio non specificati altrimenti), stracci e indumenti protettivi, contaminati da sostanze pericolose (pericoloso)
  • 15.02.03 assorbenti, materiali filtranti, stracci e indumenti protettivi, diversi da quelli di cui alla voce 15 02 02

Per individuare correttamente un rifiuto da imballaggio, contraddistinto appunto dalla codifica CER 15.xx.xx, è importante identificare se tale rifiuto proviene da un processo produttivo che ha utilizzato/processato un imballaggio definito come sopra dal T.U. Ambientale.

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Quando un imballaggio diventa un rifiuto?

Passiamo ora a uno dei quesiti più importanti: quando un imballaggio usato diventa effettivamente un rifiuto? In altre parole, in quali condizioni un imballo cessa di essere un bene riutilizzabile e va gestito come rifiuto a tutti gli effetti?

La normativa definisce rifiuto qualsiasi oggetto o sostanza di cui il detentore decide di disfarsi o ha l’intenzione/obbligo di disfarsi (art. 183 D.Lgs. 152/2006).

Scopri cos’è un rifiuto secondo il Testo Unico Ambientale

Applicando questa regola generale agli imballaggi, possiamo dire che un imballaggio diventa rifiuto quando si verifica almeno una delle seguenti condizioni:

  • il detentore (cioè l’azienda o persona che ha in mano l’imballaggio dopo l’uso) si disfa dell’imballaggio, liberandosene perché non gli serve più;
  • il detentore intende o è obbligato a disfarsi dell’imballaggio, ad esempio perché l’imballo non è più riutilizzabile per la sua funzione originaria.

Se nessuna di queste condizioni si verifica, ovvero se l’imballaggio resta in uso o viene recuperato per la stessa funzione, allora non si configura come rifiuto.

In molti casi, infatti, gli imballaggi possono essere restituiti al fornitore o reimpiegati in azienda, prolungandone il ciclo di vita senza entrare nel regime dei rifiuti. Pensiamo per esempio a fusti, cisterne o euro-pallet: spesso questi imballaggi resi (restituiti dopo lo svuotamento) vengono ritirati dal fornitore per essere puliti, rigenerati e riutilizzati. Finché l’imballaggio viene effettivamente avviato a riuso equivalente a quello iniziale, non lo si considera un rifiuto.

È importante notare che anche la vendita o cessione di imballaggi usati a terzi non garantisce automaticamente che non siano rifiuti. Se infatti l’imballaggio ceduto è danneggiato o non più idoneo a svolgere la sua funzione originaria, di fatto chi lo detiene se ne sta disfacendo perché non utilizzabile – e ciò lo qualifica comunque come rifiuto.

Quindi, per non considerare rifiuti gli imballaggi usati, è necessario che essi rimangano idonei all’uso per cui erano stati progettati e che vi sia l’intenzione di reimpiegarli. La normativa ambientale incoraggia il riutilizzo degli imballaggi proprio per ridurre la produzione di rifiuti. La definizione legislativa di riutilizzo (art. 218, c.1 lett. i del T.U. Ambientale) recita:

“Riutilizzo: qualsiasi operazione nella quale l’imballaggio, concepito e progettato per poter compiere, durante il suo ciclo di vita, un numero minimo di spostamenti o rotazioni, è riempito di nuovo o reimpiegato per un uso identico a quello per il quale è stato concepito… Tale imballaggio riutilizzato diventa rifiuto di imballaggio quando cessa di essere reimpiegato.”

In sostanza, un imballaggio progettato per essere riutilizzato (come ad esempio un pallet, un contenitore industriale robusto, un casco per gas riempibile, ecc.) mantiene lo status di prodotto finché continua a essere effettivamente reimpiegato per lo stesso scopo. Diventerà rifiuto solo nel momento in cui non verrà più reimpiegato e verrà quindi scartato. Questo principio anima l’intero Testo Unico Ambientale: evitare di classificare come rifiuti materiali che sono oggettivamente suscettibili di un ulteriore utilizzo funzionale.

Per le aziende, ciò significa che è lecito trattenere e far circolare gli imballaggi usati al di fuori del regime dei rifiuti, purché allo scopo di riutilizzarli. Ad esempio, se esiste un accordo contrattuale tra un’azienda e i suoi clienti/fornitori per il ritiro degli imballaggi vuoti con l’obiettivo di reimpiegarli, tali imballaggi non sono considerati rifiuti. Un contratto di reso che preveda la raccolta degli imballaggi post-consumo per riutilizzarli nello stesso impiego originario è il documento ideale per attestare la volontà di non disfarsi di quei materiali.

In questi casi, le movimentazioni degli imballaggi resi non richiedono formulari o autorizzazioni per trasporto rifiuti, in quanto si tratta di merce ancora in ciclo produttivo (imballaggi vuoti destinati a nuovo uso). Addirittura, la stessa logistica di ritorno può avvenire con i medesimi mezzi che hanno portato le merci a destinazione, ottimizzando i trasporti senza incorrere negli obblighi previsti per i rifiuti

Riassumiamo dunque i criteri per cui un imballaggio diventa rifiuto, in breve:

  • un imballaggio diventa rifiuto quando chi lo detiene se ne disfa o lo considera uno scarto senza ulteriore utilizzo;
  • se l’imballaggio viene restituito o riutilizzato con lo stesso scopo iniziale, non è un rifiuto (ma è fondamentale che sia effettivamente idoneo all’uso e rientri in un circuito di riutilizzo organizzato);
  • le aziende possono organizzare sistemi di reso imballaggi per prolungarne la vita utile, riducendo la quantità di rifiuti da gestire e relativi costi. Solo quando l’imballo non sarà più riutilizzabile dovrà essere gestito come rifiuto, con attribuzione del codice CER appropriato e avvio a recupero o smaltimento.

I rifiuti di imballaggi sono assimilabili ai rifiuti urbani?

Un tema cruciale per le imprese è capire se i rifiuti di imballaggio prodotti in azienda vadano smaltiti come rifiuti speciali (a gestione privata) oppure possano essere conferiti al servizio pubblico dei rifiuti urbani. In altri termini: gli imballaggi di scarto aziendali sono assimilabili ai rifiuti urbani? La risposta dipende dal tipo di imballaggio e dalle normative locali/nazionali vigenti.

La normativa ambientale (Testo Unico Ambientale) ha stabilito alcune regole specifiche sull’immissione degli imballaggi nel circuito urbano. In particolare l’art. 226, c.2 del T.U. Ambientale prevede due disposizioni chiave:

  1. è vietato conferire imballaggi terziari (di qualsiasi materiale) nel normale circuito di raccolta dei rifiuti urbani. Quindi gli imballaggi terziari non possono in alcun caso essere equiparati ai rifiuti urbani raccolti dal servizio pubblico. Devono essere gestiti come rifiuti speciali dall’azienda stessa o tramite operatori privati autorizzati;
  2. per gli imballaggi secondari, se non vengono restituiti al commerciante al dettaglio che li ha originariamente forniti (pensiamo alle scatole o cassette che un negozio dà al cliente insieme alla merce), è ammesso il conferimento al servizio pubblico, ma solo tramite raccolta differenziata e ove attivata la filiera di riciclaggio per quel materiale. In pratica, l’imballaggio secondario non riutilizzato può essere buttato nei contenitori della raccolta differenziata comunale (carta, plastica, vetro, ecc.) se il Comune prevede la raccolta di quel materiale. Non è invece consentito buttarlo nell’indifferenziato.

Dalle norme e dai regolamenti si deduce quindi che gli imballaggi terziari a fine vita restano sempre rifiuti speciali a carico del produttore (azienda), mentre alcuni imballaggi secondari e tutti quelli primari possono rientrare tra i rifiuti urbani se conferiti in raccolta differenziata e se il Comune li considera assimilati agli urbani. In passato, la facoltà di decidere quali rifiuti speciali assimilare agli urbani era demandata ai regolamenti comunali (ai sensi dell’art. 198, c.2, lett. g TUA) che fissavano criteri di assimilazione sul territorio.

Scopri anche chi è il Produttore iniziali di rifiuti

Dal 1° gennaio 2021, però, la normativa nazionale ha profondamente innovato questo aspetto con il D.Lgs. 116/2020, eliminando il concetto di “assimilazione” discrezionale e definendo a monte quali rifiuti delle attività economiche sono da considerarsi “rifiuti urbani”. In particolare, rifiuti di imballaggio in materiali quali carta, plastica, vetro, metalli, tessili non pericolosi provenienti da utenze non domestiche sono inclusi nella nuova definizione di rifiuto urbano (in quanto simili per natura ai rifiuti domestici), a patto che provengano da attività elencate in un apposito allegato e che siano avviati a raccolta differenziata. Di fatto, imballaggi primari e secondari di materiali comunemente riciclabili, prodotti da attività commerciali, industriali o servizi, possono essere gestiti come rifiuti urbani tramite il servizio pubblico, mentre gli imballaggi terziari ne restano esclusi.

In sintesi, oggi occorre fare riferimento alle disposizioni nazionali (che hanno uniformato i criteri) e ai regolamenti comunali aggiornati per capire se un certo rifiuto di imballaggio aziendale può essere conferito al gestore pubblico come urbano.

CONAI: che cos’è e come funziona il Consorzio Nazionale Imballaggi

Quando si parla di imballaggi e della loro gestione a fine vita, non si può prescindere dallo spiegare cosa sia il CONAI (Consorzio Nazionale Imballaggi). Il CONAI è il fulcro del sistema di responsabilità estesa del produttore per gli imballaggi in Italia. Vediamo di seguito che cos’è il CONAI, come funziona e quali obblighi comporta per le aziende che producono o utilizzano imballaggi.

Il CONAI è un consorzio privato senza scopo di lucro, istituito nel 1997 in attuazione delle direttive europee, con l’obiettivo di incrementare il recupero e il riciclo dei materiali di imballaggio. Vi aderiscono obbligatoriamente tutte le imprese che producono o utilizzano imballaggi in Italia, allo scopo di finanziare e organizzare la gestione dei rifiuti di imballaggio derivanti dai loro prodotti. L’idea di fondo è che i costi ambientali degli imballaggi a fine vita ricadano su chi li immette sul mercato, secondo il principio “chi inquina paga” e della responsabilità estesa del produttore.

Come funziona il sistema? Il CONAI coordina le attività di sei consorzi di filiera, ciascuno dedicato a un materiale di imballaggio, che si occupano concretamente di raccogliere e avviare a riciclo i rifiuti di imballaggio su tutto il territorio nazionale. I sei consorzi di filiera, membri del sistema CONAI, sono:

  • RICREA – Consorzio per il riciclo degli imballaggi in acciaio;
  • CIAL – Consorzio per il riciclo degli imballaggi in alluminio;
  • COMIECO – Consorzio per il riciclo di imballaggi a base cellulosica (carta e cartone);
  • RILEGNO – Consorzio per il recupero degli imballaggi in legno;
  • COREPLA – Consorzio per la raccolta e riciclo degli imballaggi in plastica;
  • COREVE – Consorzio per il recupero del vetro.

Questi consorzi di filiera, insieme al CONAI, formano il Sistema Consortile degli imballaggi. In pratica le aziende che aderiscono a CONAI finanziano, attraverso un contributo, le attività dei consorzi di filiera, i quali a loro volta collaborano con i Comuni e le aziende di gestione rifiuti per raccogliere i rifiuti di imballaggio (tramite la raccolta differenziata) e avviarli al riciclo.

Il CONAI stipula un Accordo Quadro con l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) che regola i rapporti e i compensi: il sistema consortile rimborsa ai Comuni una parte dei costi sostenuti per la raccolta e il trattamento dei rifiuti di imballaggio. In questo modo si crea un ponte tra Pubblica Amministrazione (servizio pubblico di raccolta) e imprese private, garantendo che i costi siano condivisi e che i materiali raccolti vengano effettivamente riciclati.

Il contributo ambientale CONAI (CAC)

Per finanziare tutto il sistema, le aziende aderenti al CONAI versano un contributo obbligatorio per ogni tonnellata di imballaggi immessa sul mercato: il CAC (Contributo Ambientale CONAI). Questo contributo ambientale è il meccanismo economico attraverso cui i produttori e utilizzatori di imballaggi si fanno carico dei costi di recupero e riciclo.

Il CONAI utilizza il gettito del contributo in parte per le proprie spese amministrative e soprattutto per trasferire risorse ai consorzi di filiera e quindi ai Comuni. Nell’ambito dell’Accordo ANCI-CONAI, infatti, ai Comuni sono riconosciuti corrispettivi economici per coprire i maggiori oneri della raccolta differenziata degli imballaggi.

Chi deve aderire al CONAI e pagare il contributo ambientale?

L’adesione al CONAI è obbligatoria per legge per tutti i soggetti economici identificati come “produttori” o “utilizzatori” di imballaggi.

  • Produttori di imballaggi: la normativa li definisce come “i fornitori di materiali di imballaggio, i fabbricanti e trasformatori di imballaggi, e gli importatori di imballaggi vuoti e di materiali di imballaggio”.
  • Utilizzatori di imballaggi: questa categoria include tutte le aziende che acquistano imballaggi per confezionare i propri prodotti (i cosiddetti riempitori o “users” di packaging) e le aziende che importano prodotti già imballati dall’estero.

L’unica figura esclusa da questi obblighi è l’utente finale dell’imballaggio, inteso come il soggetto che acquista prodotti imballati per utilizzarli nella propria attività senza rivenderli.

Esistono alternative al sistema CONAI?

Il CONAI è concepito come un consorzio unico e obbligatorio per tutti, ma la legge prevede la possibilità di sistemi alternativi. In particolare, consente ai produttori di imballaggi di organizzarsi autonomamente per gestire i propri rifiuti di imballaggio.

Le imprese che intendono perseguire questa strada devono presentare un progetto dettagliato alle autorità competenti, dimostrando di poter garantire una gestione efficiente ed efficace su tutto il territorio nazionale. Devono assicurare:

  • copertura nazionale del ritiro degli imballaggi post-consumo;
  • efficienza ed economicità;
  • autosufficienza operativa ed organizzativa;
  • il conseguimento di obiettivi minimi di recupero e riciclo stabiliti per legge.

Solo se tutte queste condizioni sono rispettate, il Ministero può riconoscere il sistema alternativo. In caso contrario, l’azienda dovrà aderire a CONAI e versare anche retroattivamente il contributo ambientale dovuto.

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